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DIRITTO DELLA PROPRIETA' INDUSTRIALE

Suprema Corte di Cassazione: anche in presenza di una rete selettiva di distribuzione di un brand di lusso, la sola vendita del prodotto da parte di un rivenditore non autorizzato non basta a pregiudicare la reputazione del marchio.

Nessun pregiudizio per la famosa Maison se la vendita di gioielli di lusso avviene all’interno di un Outlet.

La Corte di appello non riteneva provata la sussistenza di un sistema di distribuzione selettiva per la commercializzazione dei prodotti contraddistinti dal marchio di lusso e comunque sosteneva che la commercializzazione di tali prodotti da parte della convenuta, al di fuori della rete distributiva autorizzata, non aveva arrecato pregiudizio alla reputazione del marchio.

La maison ricorre in Cassazione lamentando, tra i motivi di doglianza, la violazione del reg. UE n. 330/2010, per aver la Corte d'Appello statuito l'insussistenza di un sistema di distribuzione selettiva in capo alla maison. Così valutando, la Corte aveva vanificato la logica sottesa all'adozione di detto sistema da parte della ricorrente, ossia la sua volontà di distribuire e commercializzare il prodotto di lusso avvalendosi di rivenditori aventi precise caratteristiche di prestigio ed eleganza, così da preservare l'immagine di lusso legata al proprio marchio nonché ai proprio prodotti.

Nelle sue argomentazioni, la Cassazione ricorda anzitutto che il Regolamento invocato dalla ricorrente, attribuisce al titolare del marchio la possibilità di opporsi all'ulteriore commercializzazione dei suoi prodotti, sebbene siano stati immessi nel territorio comunitario, in presenza di una rete di distruzione selettiva.

Ciò detto, ravvisa che nonostante la maison avesse indicato le caratteristiche che dovevano possedere i rivenditori della sua rete, non vi era prova che tali criteri fossero stati effettivamente applicati nell'individuazione dei distributori. Ad esempio, nell'esaminare i diversi criteri indicati, la Corte ha accertato che ben venticinque esercizi su novantanove presenti nell'elenco non erano ubicati né in capoluoghi di provincia, né in zone di interesse turistico.

Pertanto, correttamente la Corte territoriale aveva concluso sostenendo che difettava la prova che i distributori autorizzati fossero stati selezionati sulla base del possesso di determinati requisiti prestabiliti.
La Cassazione continua precisando che anche dando per scontata l'esistenza della distribuzione selettiva, indicata dalle norme comunitarie, il solo fatto di vendere i gioielli al di fuori del circuito prescelto, non basterebbe a provare il pregiudizio, neppure potenziale, all'immagine del brand.

In particolare, la collocazione dei gioielli in un negozio situato all'interno di un Outlet di provincia non reca un vulnus al marchio solo perché gli «Outlet, così come i centri commerciali, non rispondono ai requisiti di eccellenza che la maison adotta».

Per questi motivi, la Cassazione rigetta il ricorso con:

Ordinanza n. 7378 del 14 marzo 2023.

Svolgimento del processo.

La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 4682/2019, depositata in data 25.11.2019, in riforma della sentenza n. 7691/2018, pubblicata il 9.7.2018, ha accertato che le attività di promozione e commercializzazione dei prodotti contraddistinti dal segno “C.”, poste in essere da G.A. s.p.a., non integrano contraffazione del predetto marchio ed ha quindi respinto le domande proposte da C. s.p.a., dirette ad ottenere l’inibizione a G.A. s.p.a. dalla promozione, distribuzione, commercializzazione, in tutte le sue forme, del prodotti recanti il marchio “C.”.
Il giudice di secondo grado ha ritenuto non provata la sussistenza di un sistema di distribuzione selettiva per la commercializzazione dei prodotti contraddistinti dal marchio “C.” e comunque ha ritenuto che la commercializzazione di tali prodotti da parte della G.A. s.p.a., al di fuori della rete distributiva autorizzata, non ha arrecato pregiudizio alla reputazione del predetto marchio.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la C. s.p.a. affidandolo affidandolo a tre motivi.
La G.A. s.p.a. ha resistito in giudizio con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ..
 
Motivi della decisione.

1. Con il primo motivo è stata dedotta la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 51 cod. proc. civ. e dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 cod.proc. civ..
Lamenta la società ricorrente che la sentenza della Corte d’Appello è nulla per violazione dell’obbligo di astensione da parte di un componente del collegio (non relatore ed estensore), il quale aveva conosciuto e trattato la controversia, in veste di giudice relatore, in sede di procedimento cautelare ante causam (procedimento ex art. 669 terdecies c.p.c. rubricato al R.G. n. 3671/16 e promosso da G.A. s.p.a. avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano dell’11.1.2016.
Deduce la ricorrente che il componente del collegio d’appello, già relatore ed estensore nella fase del reclamo cautelare, al fine di preservare la terzietà del collegio giudicante, avrebbe dovuto astenersi a norma dell’art. 51 n. 4 cod. proc. civ..

2. Il motivo è infondato.

È orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. n. 27924/2018; vedi anche Cass. n. 17606/2018 in motivazione, pagg. 8 e 9; Cass. n. 422/2006; e Cass. n. 7308/1994) quello secondo cui “Non è deducibile come motivo di nullità di una sentenza d'appello la circostanza che uno dei componenti del collegio che l'ha pronunciata avesse in precedenza conosciuto dei medesimi fatti in sede di reclamo contro l'ordinanza di rigetto della richiesta di provvedimento d'urgenza "ante causam", poiché l'avere conosciuto della stessa causa in un altro grado deve essere ritualmente fatto valere come motivo di ricusazione del giudice, a norma degli artt. 51, comma 1, n. 4, e 52 c.p.c. e, d'altra parte, l'avere trattato della controversia in sede di procedimento cautelare "ante causam" neanche costituisce, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 326/1997 e ordinanza n. 193/1998), un'ipotesi sufficientemente assimilabile, sotto il profilo dell'incompatibilità, alla trattazione della causa in un altro grado di giudizio”.

Tale orientamento è stato, altresì, avallato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 1783/2011) che, nel valutare il rapporto tra la fase cautelare ed il giudizio di merito nell’ambito di un procedimento disciplinare a carico di un magistrato, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui: “L'incompatibilità che, ai sensi dell'art. 51 n. 4 e 52 cod. proc. civ., giustifica l'accoglimento dell'istanza di ricusazione per avere il giudice conosciuto del merito della causa in un altro grado dello stesso processo non è ravvisabile nell'ipotesi in cui gli stessi componenti del Collegio delle Sezioni Unite investito della decisione sul ricorso avverso un provvedimento disciplinare posto a carico di un magistrato abbiano già deciso sull'impugnazione del provvedimento di sospensione cautelare emesso nei confronti del medesimo incolpato, atteso che la decisione sul provvedimento cautelare appartiene ad una serie processuale autonoma sia per presupposti, sia per ambito di cognizione sia per effetti impugnatori e che essa, di conseguenza, non è in alcun modo riferibile "ad un altro grado dello stesso processo".

Tale principio va in questa sede anche quanto allo specifico quesito sottoposto dal ricorso e dunque va affermato che, nel giudizio di cognizione ordinaria, non vi è violazione dell’obbligo di astensione da parte di un componente del collegio (nella specie: non relatore ed estensore), il quale abbia conosciuto e trattato la controversia, in veste di giudice relatore, in sede di procedimento cautelare ante causam (procedimento ex art. 669 terdecies c.p.c.).

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del regolamento UE n. 330/2010, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 comma 1° n. 5 cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello statuito l’insussistenza di un sistema di distribuzione selettiva in capo a C. s.p.a..
Deduce la società ricorrente che la Corte territoriale avrebbe errato nell’applicare la normativa eurounitaria nonché omesso di esaminare un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ovvero che i prodotti della C. s.p.a. siano beni di lusso, già di per sé idonei a legittimare in capo alla stessa l’adozione di un sistema di distribuzione selettiva.

Inoltre, lamenta che il giudice d’appello avrebbe ritenuto inspiegabilmente ininfluenti circostanze che il Tribunale di Milano aveva, invece, valorizzato come prova della sussistenza di una rete di distribuzione selettiva, ovvero che risultava provato che C. imponeva ai propri rivenditori determinate modalità di presentazione di vendita del prodotto, nonché una determinata politica dei prezzi, vigilando affinché tali modalità e tale politica venissero rispettati.

Inoltre, anche l’iter logico seguito dalla Corte d’Appello risultava contraddittorio, avendo, da un lato, riconosciuto che la struttura di vendita organizzata da C. s.p.a. possedeva i requisiti indicati dal regolamento UE n. 330/2010, e, dall’altro, sulla scorta di una presunta eccessiva discrezionalità del produttore nell’applicazione di uno solo dei numerosi criteri qualitativi indicati (quello relativo all’ubicazione del distributore in capoluoghi di provincia o in importanti comuni della provincia o in località di rilevante interesse turistico commerciale), ha negato la sussistenza di un sistema di distribuzione selettiva in capo a C.. Così valutando, la Corte d’Appello aveva vanificato la logica sottesa all’adozione di un sistema di distribuzione selettiva da parte di C., ossia la precisa volontà della Maison orafa di distribuire e commercializzare il prodotto di lusso (nel caso di specie, alta gioielleria) avvalendosi di rivenditori /concessionari aventi precise caratteristiche di eleganza ed esclusività, così da preservare l’immagine di lusso e di prestigio legata al proprio marchio e ai propri prodotti.

4. Il motivo è inammissibile.

Va premesso che la direttiva europea 2008/95/CE ha introdotto nell’ordinamento comunitario, con l’art. 7, il principio di esaurimento del marchio (espressione del principio di libera circolazione delle merci), recepito dal nostro ordinamento con l’art. 5 del codice di proprietà industriale.

Secondo tale principio, una volta che il titolare di uno o più diritti di proprietà industriale immetta in commercio, direttamente o con il proprio consenso (a titolo di esempio, con un licenziatario), un bene nel territorio dell’Unione europea, questi perde le relative facoltà di privativa.

L’esclusiva è, pertanto, limitata al primo atto di messa in commercio, con la conseguenza che nessuna esclusiva può essere successivamente vantata dal titolare del diritto di proprietà industriale sulla circolazione del prodotto recante il marchio.

Il principio dell’esaurimento registra, tuttavia, un’eccezione: il secondo comma dell’articolo 5 c.p.i. prevede che questa limitazione di poteri del titolare della privativa non si applica quando sussistono “motivi legittimi” perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti.

La giurisprudenza comunitaria (vedi Corte Giustizia, sentenza 23.4.2009, causa C 59/08, Copad contro Christian Dior) ha ritenuto che l’esistenza di una rete di distribuzione selettiva – intendendo per tale, secondo quanto previsto dall’art. 1 lett e) del regolamento UE n. 330/2010, un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo ai distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema - può essere ricompresa tra i “motivi legittimi”, ostativi all’esaurimento del marchio, a condizione che il prodotto commercializzato sia un articolo di lusso o di prestigio che legittimi la scelta di adottare un sistema di distribuzione selettiva.

Effettuato questo sintetico, ma opportuno, inquadramento giuridico della fattispecie sottoposta all’esame di questa Corte, possono esaminarsi le censure della ricorrente.

Va preliminarmente osservato che la Corte d’Appello non ha affatto omesso di considerare che i prodotti C. siano beni di lusso. In particolare, a pagg. 17 e 18 della sentenza impugnata, tale giudice, nel ricordare che sussiste motivo legittimo preclusivo all’esaurimento delle facoltà connesse al marchio in presenza di determinate circostanze, ovvero quando: 1) il prodotto contraddistinto dal marchio è un articolo di lusso o comunque di prestigio; 2) il titolare del marchio ha adottato un sistema di distribuzione selettiva per la commercializzazione del prodotto; 3) il soggetto che commercializza il prodotto, al di fuori della rete distributiva autorizzata, arreca un pregiudizio alla reputazione del marchio, ha considerato, nel caso di specie, insussistenti, come sopra anticipato nella parte narrativa, i requisiti sub 2 e 3, ritenendo quindi implicitamente sussistente il requisito sub 1), ovvero che i prodotti C. rappresentino dei beni di lusso.

Quanto alle altre censure illustrate nel motivo, non vi è dubbio che la ricorrente, con l’apparente doglianza della violazione di legge (regolamento UE n. 330/2010), svolga, in realtà, delle censure di merito, in quanto finalizzate a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti ed una differente valutazione del materiale probatorio rispetto a quella operata dalla Corte d’Appello di Milano.

La ricorrente si duole, infatti, inammissibilmente, di una valutazione di fatto compiuta dalla Corte territoriale, apprezzamento che, in quanto riservato al giudice di merito, non è sindacabile in sede di legittimità, se non nei ristretti limiti di cui alla nuova formulazione dell’art. 360 comma 1° n. 5 cod. proc. civ., come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8053/2014.

In particolare, in questa pronuncia, il Supremo Collegio ha enunciato il principio di diritto secondo cui è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione.

Nel caso di specie, il vizio di motivazione non è stato dedotto dalla ricorrente, quantomeno nei termini richiesti dalla predetta sentenza delle Sezioni Unite, e comunque è insussistente la dedotta contraddittorietà dell’iter logico seguito dalla Corte d’Appello, non avendo, sul punto, la ricorrente colto correttamente la ratio decidendi.

In particolare, il giudice di secondo grado non ha affatto riconosciuto, a pag. 19 della sentenza impugnata, che la struttura di vendita organizzata da C. s.p.a. possedesse i requisiti indicati dal regolamento Ue n. 330/2010 per la distribuzione selettiva.

La Corte d’Appello si è limitata a dare atto che C. aveva ben “indicato”, già nel procedimento di primo grado, quali caratteristiche dovevano possedere i rivenditori della sua rete, ritenendo, tuttavia, all’esito dell’esame del materiale probatorio - difformemente rispetto alle conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado – che non vi era prova che i criteri elencati dalla C. (ubicazione in capoluoghi di provincia o importanti comuni di provincia o zone di rilevante interesse turistico commerciale, posizione centrale dell’esercizio commerciale; tradizione consolidata nel tempo dell’esercizio; alta professionalità dell’esercente ed elevata qualità del servizio offerto ai clienti; stigliature ed arredi presenti nell’esercizio eleganti e di alta qualità; commercializzazione autorizzata di importanti marchi di gioielleria quali a titolo esemplificativo: B. P., P., B. C., e C., etc) fossero stati dalla stessa effettivamente applicati nell’individuazione dei distributori.

In particolare, ha precisato la Corte di merito che, nei contratti di distribuzione (valorizzati dal Tribunale in senso favorevole alla ricorrente), non era, in realtà, indicato alcun criterio in forza del quale il singolo distributore era stato selezionato, né che, nel corso del rapporto, il distributore dovesse continuare a mantenere il possesso dei requisiti richiesti. Neanche i contratti di agenzia prodotti in causa (valorizzati difformemente dal Tribunale) erano idonei a fornire la prova dell’esistenza di un sistema di distribuzione selettiva e comunque risultavano conclusi dopo quelli con i distributori, non consentendo quindi di affermare che i distributori fossero stati in precedenza selezionati sulla base dei criteri previsti dai contratti di agenzia.

In ogni caso, se era pur vero che la C. aveva richiesto di provare, anche per testimoni, la circostanza che i distributori erano stati selezionati in base ai criteri sopra indicati, tuttavia, dopo che il Tribunale aveva ritenuto superflua la prova, la C. s.p.a. non aveva proposto l’istanza, in sede di precisazione delle conclusioni di primo grado, con la conseguenza che la stessa doveva ritenersi rinunciata, e non poteva essere presa in considerazione nel giudizio d’appello, pur se in quella sede era stata riproposta.

Infine, la Corte d’Appello, nell’esaminare i diversi criteri indicati da C. per la selezione dei distributori, ha comunque accertato che ben venticinque esercizi su novantanove presenti nell’elenco non erano ubicati né in capoluoghi di provincia, né in zone di interesse turistico.

Alla luce delle soprariportate osservazioni, la Corte territoriale ha concluso che difettava la prova che i distributori autorizzati fossero stati selezionati sulla base del possesso di determinati requisiti prestabiliti.
Come già anticipato, trattasi di valutazione di fatto che non è sindacabile in sede di legittimità, essendo stata articolatamente congruamente con una motivazione immune da vizi logici.

5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 20 c.p.i. e 1 lett e) del regolamento UE n. 330/2010, nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 comma 1° n.5 cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello statuito l’assenza di pregiudizio alla reputazione del marchio “C.” dalla vendita dei prodotti effettuata da G.A. s.p.a..

Deduce, in primo luogo, la ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe omesso di valutare come fatto decisivo la circostanza che il marchio “C.” è un segno rinomato, depositato per
contraddistinguere prodotti di lusso.

Evidenzia, inoltre, che la logica sottesa all’adozione del sistema di distribuzione selettiva di C. s.p.a. (tutela della dimensione di esclusività della propria rete di vendita e del prestigio del marchio) è stata vanificata dalla condotta illecita posta in essere da G.A. s.p.a., la quale ha provveduto alla vendita non autorizzata dei prodotto c. in violazione dell’art. 20 lett a) c.p.i..
La ricorrente contesta, altresì, l’affermazione con cui la Corte d’Appello ha ritenuto che la vendita dei prodotti di lusso effettuata da un soggetto estraneo alla rete selettiva, che non risponda ai requisiti di eccellenza imposti dall’imprenditore, non determini di per sé un pregiudizio per la reputazione del marchio. La ricorrente, in particolare, non ha condiviso l’assunto della Corte di merito secondo cui le modalità di vendita adottate G.A. nel proprio punto vendita ad insegna “L.Z, all’interno dell’’Outlet sito in (omissis) non pregiudicherebbe il prestigio del marchio “C.”. Infatti, la sola collocazione di tale punto vendita all’interno di un Outlet determinerebbe il pregiudizio, anche in via potenziale, dell’immagine di lusso di tale segno, atteso gli Outlet, così come i centri commerciali, non rispondono ai requisiti di eccellenza che C. adotta.

6. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che la Corte d’Appello ha rigettato la domanda della odierna ricorrente con una doppia ratio decidendi:

1) non vi è prova che i distributori autorizzati da C. s.p.a. fossero stati selezionati sulla base del possesso di determinati requisiti prestabiliti, come richiesto dall’art. 1 lett e) reg. UE 330/2010;
2) in ogni caso, la sola circostanza che il rivenditore fosse estraneo alla rete di distribuzione selettiva e non possedesse i requisiti posseduti dai distributori autorizzati non è comunque di per sé sufficiente a ritenere che la commercializzazione del prodotto di lusso determini un pregiudizio per la reputazione del marchio.

In sostanza, la Corte d’Appello, con la prima ratio decidendi, ha escluso la sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 1 lett e) reg. UE 330/2010 per la configurabilità di una rete di distribuzione selettiva idonea ad integrare i“motivi legittimi” perché il titolare stesso possa opporsi all’ulteriore commercializzazione dei prodotti recanti il proprio marchio, nonostante la loro immissione nel territorio comunitario. Con la seconda ratio decidendi, la Corte ha ritenuto che, anche ammettendo l’esistenza di una rete distribuzione selettiva, comunque, la vendita di un prodotto di lusso da parte di un rivenditore estraneo a tale rete non determina di per sé pregiudizio alla reputazione del marchio e, nel caso di specie, le concrete modalità di vendita seguite da G.A. s.p.a. avevano confermato che un tale pregiudizio non era stato arrecato.

Orbene, è orientamento consolidato di questa Corte che qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza (o l’inammissibilità) delle censure mosse ad una delle "rationes decidendi" – nel caso di specie, quelle esaminate nel secondo motivo - rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l'intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (vedi Cass. n. 11493 del 11/05/2018).

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
 
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in € 8.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso art.13
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